Il diritto del lavoratore a non essere trasferito ad altra sede lavorativa senza il suo consenso non può subire limitazioni anche quando la disabilita del familiare che assiste non si configuri come grave, sempre che non risultino provate da parte del datore di lavoro specifiche esigenze che, risultino effettive, urgenti e comunque insuscettibili di essere diversamente soddisfatte

Cassazione civile sez. lav. sentenza n. 9201/2012

Una società aveva disposto il trasferimento ad altra sede di un proprio dipendente nonostante lo stesso prestasse assistenza al fratello disabile, secondo la società il trasferimento era legittimo in quanto il fratello del lavoratore non era stato giudicato dalla competente Commissione disabile in condizione di gravità.
Il dipendente aveva impugnato giudizialmente il provvedimento di trasferimento, tuttavia, prima il Tribunale e poi la Corte d’Appello, avevano respinto il suo ricorso, affermando che le agevolazioni previste dalla legge n. 104/1992, art. 33, in favore dei familiari conviventi, nel testo applicabile ratione temporis, prevedevano, nel comma 5, un diritto non illimitato e condizionato esclusivamente all’handicap grave o tale da richiedere assistenza continua, mentre nel caso di specie la condizione di gravità del fratello del dipendente non era risultata accertata.
Il lavoratore aveva, quindi, presentato ricorso in Cassazione.
La Suprema Corte, nella sentenza qui commentata, ricostruisce in primis la cornice normativa in cui la vicenda si colloca.
La legge 104/1992 ha introdotto all’art. 33 agevolazioni per i lavoratori che assistono soggetti portatori di handicap, in particolare, il quinto comma dispone che: “Il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato, con lui convivente, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”.
Dalla lettura di tutte le agevolazioni disciplinate dal testo originario dell’art. 33, si evince, secondo la Cassazione, che il legislatore del 1992 ha espressamente connotato con il requisito della “gravità” del disabile la concessione delle agevolazioni, fatta eccezione per il comma che riguarda il caso di specie, ove il legislatore ha adoperato, invece, la correlazione tra lavoratore e familiare fondata sull’assistenza con continuità e sulla convivenza.
Il dettato del comma quinto è stato poi modificato dalla legge n. 53/2000 che con l’art. 19 ha eliminato il requisito della convivenza e con l’art. 20 ha precisato che l’assistenza deve essere prestata con continuità e in via esclusiva.
La legge n. 183/2010 ha disposto, infine, con l’art. 24, comma 1, lettera b) la modifica dell’art. 33, comma 5, così novellando la disposizione: “Il lavoratore di cui al comma 3 ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”.
Invero, la configurazione giuridica delle posizioni soggettive riconosciute dalla norma ed i limiti del relativo esercizio all’interno del rapporto di lavoro, devono essere individuati, secondo la Cassazione, non solo alla luce della cornice normativa così delineata, ma anche in relazione ai numerosi interventi della Corte costituzionale (Corte cost. n. 406/1992; Corte Cost. n. 325/1996, Corte Cost. 350/2003, Corte Cost. 233/2005, Corte Cost. n 158/2007, Corte Cost. n. 19/2009, Corte Cost n. 329/2011,) ed in relazione, altresì, alla Convenzione delle Nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata dall’Assemblea generale il 13 dicembre 2006 e ratificata, nel nostro ordinamento, con la legge n. 18/2009 (artt. nn. 1, 2 e 4).
In quest’ottica, secondo la Cassazione, le misure previste dall’art. 33, comma 5, devono intendersi come razionalmente inserite in un ampio complesso normativo, riconducibile al principio sancito dall’art. 3 Cost., comma 2, che deve trovare attuazione mediante meccanismi di solidarietà che, da un lato, non si identificano esclusivamente con l’assistenza familiare e, dall’altro, devono coesistere e bilanciarsi con altri valori costituzionali.
Anche prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 53/2000, secondo la Suprema Corte, la tutela riconosciuta al lavoratore che provveda all’assistenza del familiare disabile, pone in evidenza che l’agevolazione assolve contestualmente alla ratio di garantire la presenza del lavoratore nel proprio nucleo familiare e di non reprimere la persona con disabilita dell’assistenza del familiare che se ne prende cura, compromettendone la tutela psico-fisica, risultando così destinatario della tutela la persona disabile in quanto inserita nel nucleo familiare del familiare lavoratore.
Tale ricostruzione è in linea con la definizione contenuta nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, con la nuova classificazione adottata nel 1999 dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha sostituito il termine “disabilità ” con “attività personali” e i termini “handicap” e “svantaggio esistenziale” con il termine “partecipazione sociale”, nonchè con i canoni interpretativi della tradizione costituzionale comune agli Stati membri dell’Unione, affermati dalla Carta di Nizza del 7 dicembre 2000.
L’efficacia della tutela della persona con disabilita si realizza anche mediante la regolamentazione del contratto di lavoro in cui è parte il familiare della persona tutelata, là dove il riconoscimento di diritti in capo al lavoratore è in funzione del diritto del congiunto con disabilità alle immutate condizioni di assistenza.
L’applicazione dell’art. 33, comma 5, cit., postula, pertanto, secondo la Cassazione, di volta in volta, un bilanciamento di interessi valido, in via generale, per tutti i trasferimenti, atteso il disposto dell’art. 2103 c.c., che, nel periodo finale del primo comma, statuisce che il lavoratore non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra “se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.
In ragione dei principi fissati dalla sentenza delle Sezioni unite n. 16102 del 2009, dalla Convenzione dell’ONU del 13 dicembre 2003 sui diritti delle persone con disabilità recepita dalla Legge Statale n. 5 del 2009 ed in Linea con i canoni interpretativi affermati dalla Carta di Nizza, la disposizione normativa succitata va interpretata, secondo la Suprema Corte, in senso costituzionalmente orientato e, in considerazione dei valori coinvolti, a tutela della persona del disabile.
Conseguentemente nella sentenza la Cassazione ha affermato che “Il diritto del lavoratore a non essere trasferito ad altra sede lavorativa senza il suo consenso non può subire limitazioni anche allorquando la disabilita del familiare non si configuri come grave risultando la sua inamovibilità, nei termini in cui si configuri come espressione del diritto all’assistenza del familiare comunque disabile, giustificata dalla cura e dall’assistenza da parte del lavoratore al familiare con lui convivente, sempre che non risultino provate da parte del datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità (psico- fisica) del familiare, specifiche esigenze datoriali che, in un equilibrato bilanciamento tra interessi, risultino effettive, urgenti e comunque insuscettibili di essere diversamente soddisfatte”.
Pertanto, cassata la sentenza impugnata, la Suprema Corte ha accolto la domanda del lavoratore.

Sabrina Cestari

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