ISEE: l’indennità di accompagnamento ed i proventi aventi natura indennitaria o compensativa che l’Ordinamento pone a compensazione dell’oggettiva situazione di svantaggio, anche economico, che ricade sui disabili e sulle loro famiglie non possono essere considerati reddito

Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) sentenza n. 00842/2016 depositata il 29/02/2016

Si ricorderà che in ordine al regolamento sulla revisione delle modalità di determinazione e sui campi di applicazione dell’ISEE il TAR Lazio – Roma, sez. I con sentenza n. 2459/2015, aveva accolto due dei motivi avanzati in ricorso dai disabili e dalle loro famiglie e per l’effetto aveva annullato l’art. 4, c. 2, lett. f) del DPCM 159/2013, nella parte in cui ha incluso, tra i dati da considerare ai fini ISEE per la situazione reddituale i trattamenti assistenziali, previdenziali ed indennitari percepiti dai soggetti portatori di disabilità ed annullato l’art. 4, c. 4, lett. d) del DPCM nella parte in cui, nel fissare le franchigie da detrarre dai redditi, aveva introdotto “… un’indistinta differenziazione tra disabili maggiorenni e minorenni, consentendo un incremento di franchigia solo per quest’ultimi, senza considerare l’effettiva situazione familiare del disabile maggiorenne”.

La Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ed il Ministero dell’economia e delle finanze avevano impugnato la suddetta sentenza avanti al Consiglio di Stato.

Orbene, secondo il Consiglio di Stato l’art. 4, c. 1, lett. f) del DPCM contempla nell’ISEE, tra i trattamenti fiscalmente esenti, quelli aventi natura indennitaria o compensativa ed individua, tra il reddito disponibile, siffatti proventi «… che l’ordinamento pone a compensazione della oggettiva situazione di svantaggio, anche economico, che ricade sui disabili e sulle loro famiglie…», peraltro senza darne adeguata e seria contezza, poiché non si tratta né di reddito, né di reddito disponibile ai sensi dell’art. 5, c. 1 del DL 201/2011.

Le Amministrazioni appellanti a tal riguardo, a parere del Collegio, non riescono a fornire la ragione per cui le indennità siano non solo o non tanto reddito esente, quanto reddito rilevante ai fini ISEE.

Invero, il Consiglio di Stato prende atto che l’art. 5, c. 1 citato impone una definizione di reddito disponibile inclusiva della percezione di proventi ancorché esenti dall’imposizione fiscale ed anche della circostanza che, talune volte, il legislatore adoperi il vocabolo «indennità» per descrivere emolumenti incrementativi del reddito o del patrimonio del beneficiario. Nondimeno è opportuna, secondo il Collegio, una seria disamina di ciascun emolumento che s’intenda sussumere nel calcolo dell’ISEE, al di là del nomen juris assegnatogli.

Orbene, quando le somme sono erogate al fine di attenuare una situazione di svantaggio, le stesse tendono a dar effettività al principio di uguaglianza, di talché è palese la loro non equiparabilità ai redditi.

Secondo il Consiglio di Stato non v’è dubbio che l’ISEE possa, anzi debba, ai fini di un’equa e seria ripartizione dei carichi per i diversi tipi di prestazioni erogabili per il cui accesso tal indicatore è necessario, tener conto di tutti i redditi che sono esenti ai fini IRPEF, purché redditi.

Il Collegio afferma, invero, di essere conscio che, ai fini dell’ISEE, prevalgano considerazioni di natura assicurativa ex art. 38, commi II e IV, Cost., che integrano il diritto alla salute di cui al precedente art. 32, I comma, soprattutto quando le prestazioni assistenziali siano strettamente intrecciate a quelle sociosanitarie e, dunque, serva un indicatore più complesso del solo reddito personale imponibile, per meglio giungere ad equità, ossia ad una più realistica definizione di capacità contributiva.

Secondo il Consiglio, pertanto, nulla quaestio fintanto che si resta nel perimetro concettuale del reddito, invero, l’obbligo di contribuzione assicurativa non tributaria può assumere anche valori e basi imponibili più adatte allo scopo redistributivo e di benessere, tuttavia, quando si vuol sussumere alla nozione di reddito un quid di economicamente diverso ed irriducibile, non può il Legislatore dimenticare che ogni forma impositiva va comunque ricondotta al principio ex art. 53 Cost. e che le esenzioni e le esclusioni non sono eccezioni alla disciplina del predetto obbligo e/o del presupposto imponibile, esse sono piuttosto vicende presidiate da valori costituzionali aventi pari dignità dell’obbligo contributivo, l’effettiva realizzazione dei quali rende taluni cespiti inadatti alla contribuzione fiscale.

Ebbene, se di indennità o di risarcimento veri e propri si tratta (com’è, ad esempio per l’indennità di accompagnamento o misure risarcitorie per inabilità che prescindono dal reddito) né l’una, né l’altro rientrano in una qualunque definizione di reddito assunto dal diritto positivo, né come reddito – entrata, né come reddito – prodotto (essenzialmente l’IRPEF). In entrambi i casi, infatti, difetta un valore aggiunto, ossia la remunerazione d’uno o più fattori produttivi (lavoro, terra, capitale, ecc.) in un dato periodo di tempo, con le correzioni che la legge tributaria se del caso apporta per evitare forme elusive o erosive delle varie basi imponibili.

Orbene l’indennità di accompagnamento e tutte le forme risarcitorie, afferma il Consiglio, servono non a remunerare alcunché, né certo all’accumulo del patrimonio personale, bensì a compensare un’oggettiva ed ontologica (cioè indipendente da ogni eventuale o ulteriore prestazione assistenziale attiva) situazione d’inabilità che provoca in sé e per sé disagi e diminuzione di capacità reddituale. Tali indennità o il risarcimento sono accordati a chi si trova già così com’è in uno svantaggio, al fine di pervenire in una posizione uguale rispetto a chi non soffre di quest’ultimo ed a ristabilire una parità morale e competitiva. Essi non determinano una “migliore” situazione economica del disabile rispetto al non disabile, al più mirando a colmare tal situazione di svantaggio subita da chi richiede la prestazione assistenziale, prima o anche in assenza di essa. “Pertanto, la «capacità selettiva» dell’ISEE, se deve scriminare correttamente le posizioni diverse e trattare egualmente quelle uguali, allora non può compiere l’artificio di definire reddito un’indennità o un risarcimento, ma deve considerali per ciò che essi sono, perché posti a fronte di una condizione di disabilità grave e in sé non altrimenti rimediabile.”.

Secondo il Consiglio inoltre il sistema delle franchigie non può compensare in modo soddisfacente l’inclusione nell’ISEE di siffatte indennità compensative, per l’evidente ragione che tal sistema s’articola sì in un articolato insieme di benefici ma con detrazioni a favore di beneficiari e di categorie di spese i più svariati, onde in pratica i beneficiari ed i presupposti delle franchigie stesse sono diversi dai destinatari e dai presupposti delle indennità.

Il Collegio afferma, quindi, di condividere l’asserzione dei disabili quando dicono che «… ricomprendere tra i redditi i trattamenti… indennitari da loro percepiti significa allora considerare la disabilità alla stregua di una fonte di reddito -come se fosse un lavoro o un patrimonio- ed i trattamenti erogati dalle pubbliche amministrazioni, non un sostegno al disabile, ma una “remunerazione” del suo stato di invalidità… (dato) … oltremodo irragionevole … (oltre che) … in contrasto con l’art. 3 Cost. …».

Secondo il Consiglio di Stato non convince, infine, neppure il temuto vuoto normativo conseguente all’annullamento in parte qua del DPCM, in quanto, in disparte il regime transitorio cui il nuovo ISEE è sottoposto, a ben vedere non occorre certo una novella all’art. 5 del DL 201/2011 per tornare ad una definizione più realistica ed al contempo più precisa di «reddito disponibile». All’uopo, secondo il Collegio, basta correggere l’art. 4 del DPCM e fare opera di coordinamento testuale, giacché non il predetto art. 5, c. 1 del DL 201/2011 (dunque, sotto tal profilo immune da ogni dubbio di costituzionalità), ma solo quest’ultimo ha scelto di trattare le citate indennità come redditi.

La sentenza del Tar è stata, altresì, confermata dal Collegio laddove stigmatizzava l’irrazionalità e l’illogicità del trattamento differenziato tra disabili minorenni (che hanno titolo all’incremento delle detrazioni ex art. 4, lett. d, nn. 1/3 del DPCM) e maggiorenni (che di tal incremento non debbono godere). Correttamente, secondo il Consiglio di Stato, il Tar a tal riguardo aveva osservato che quantunque il maggiorenne disabile possa far nucleo a sé stante, non solo la maggior età in sé non abbatte i costi della disabilità, ma non v’è un’evidenza statistica significativa sull’incidenza dei disabili facenti nucleo a sé rispetto alla popolazione dei disabili ed al gruppo di chi non costituisce tal nucleo.

Avvocato Sabrina Cestari

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