La perdita del bene vita è danno ex se risarcibile ed il relativo diritto è trasmissibile iure hereditatis

Cassazione civile sez. III sentenza n. 1361 del 23/01/2014

Nella recente sentenza n. 1361/2014 la Suprema Corte ha affermato che la perdita della vita, per antonomasia, non ha conseguenze inter vivos per l’individuo che appunto cessa di esistere, ma ciò non può e non deve condurre a negarne in favore del medesimo il ristoro, giacché la perdita della vita, bene supremo dell’uomo e oggetto di primaria tutela da parte dell’ordinamento, non può rimanere priva di conseguenze anche sul piano civilistico.
Il ristoro del danno da perdita della vita, chiarisce la Cassazione, costituisce in realtà ontologica ed imprescindibile eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni-conseguenza.
La morte ha, infatti, per conseguenza la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto.
Non si tratta, pertanto, chiarisce la Cassazione, di verificare quali conseguenze derivino dal danno evento, al fine di stabilire quali siano risarcibili e quali no.
La Corte ha, peraltro, ribadito che il danno, anche in caso di lesione di valori della persona, non può considerarsi in re ipsa, risultando altrimenti snaturata la funzione del risarcimento, che verrebbe ad essere concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, bensì quale pena privata per un comportamento lesivo, ma va provato dal danneggiato secondo la regola generale ex art. 2697 c.c..
A tale stregua, sottolinea la Cassazione, il danno non patrimoniale deve essere sempre allegato e provato, in quanto l’onere della prova non dipende dalla relativa qualificazione in termini di “danno-conseguenza”, ma tutti i danni extracontrattuali sono da provarsi da chi ne pretende il risarcimento, e, pertanto, anche il danno non patrimoniale, nei suoi vari aspetti, la prova potendo essere d’altro canto data con ogni mezzo, anche per presunzioni.
La Suprema Corte ha chiaramente statuito che la perdita del bene vita, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile è ex se risarcibile, nella sua oggettività, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato/vittima ne abbia.
La giurisprudenza di legittimità ha d’altro canto già avuto modo di affermare, sottolinea la Cassazione, che la percezione della gravità della lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della sua vita può essere anche “non cosciente”, il danno essendo anche in tal caso pur “sempre esistente” (cfr. Cass., 28/8/2007, n. 18163, Cass., 19/10/2007, n. 21976; Cass., 7/2/2012, n. 1716; Cass. 11/6/2009, n. 13530; Cass., 15/3/2007, n. 5987).
Il danno non patrimoniale da perdita della vita, specifica la Corte, si differenzia dal danno biologico terminale e dal danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico) della vittima, rilevando ex se, nella sua oggettività di perdita del bene vita, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile.
La perdita della vita va ristorata, pertanto, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, anche in caso di morte cd. immediata o istantanea, senza che assumano rilievo nè il presupposto della persistenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento, né il criterio dell’intensità della sofferenza subita dalla vittima per la cosciente e lucida percezione dell’ineluttabile sopraggiungere della propria fine.
Il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce, secondo Cassazione, dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi anteriormente all’exitus, costituendo ontologica, imprescindibile eccezione al principio dell’irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza, giacché la morte ha per conseguenza la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto.
La Suprema Corte afferma, altresì, che il ristoro del danno da perdita della vita ha funzione compensativa, ed il relativo diritto (o ragione di credito) è trasmissibile iure hereditatis quale danno non patrimoniale, essendo il bene protetto (la vita) e non già il diritto al ristoro della relativa lesione.
In ordine alla quantificazione del danno da perdita del bene vita in favore della persona che appunto la perde va osservato, sottolinea la Corte, che esso (come del resto il danno biologico terminale e il danno morale terminale della vittima), non è contemplato dalle Tabelle di Milano.
Il danno biologico terminale o il danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico), sono stati quantificati, osserva la Cassazione, con applicazione del criterio equitativo cd. puro (Cass., 21/3/2013, n. 7126) ovvero, e più frequentemente, movendo dal dato tabellare dettato per il danno biologico, e procedendo alla relativa personalizzazione (Cass., 8/4/2010, n. 8360). Anche allorquando si è in giurisprudenza di merito fatto riferimento alla lesione del bene vita in sé considerato, ai fini liquidatori, evidenzia la Corte, si è del pari solitamente utilizzato il criterio tabellare, riferito ad un soggetto con invalidità al 100% (Trib.Venezia 15/6/2009).
Idoneo parametro di liquidazione è stato, altresì, ritenuto l’indennizzo previsto dalla L. n. 497 del 1999 per i parenti delle vittime del disastro del Cermis (v. Trib. Roma, 27/11/2008, in Danno e resp., 2010, 533 ss.).
Fatte queste premesse, la Cassazione evidenzia, che l’autonomia del bene vita rispetto al bene salute/integrità psico-fisica impone l’individuazione di un sistema di quantificazione particolare e specifico, diverso da quello dettato per il danno biologico.
La valutazione equitativa spetta, anche in questo caso, afferma la Corte, al giudice di merito ed è rimessa alla sua prudente discrezionalità l’individuazione dei criteri di relativa valutazione, per altro, essendo la vita in sé e per sé insuscettibile di valutazione economica in un determinato preciso ammontare, appare imprescindibile che il diritto privato consenta di riconoscersi alla vittima per la perdita del suo bene supremo un ristoro che sia equo, nel significato delineato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 7/6/2011, n. 12408).
Deve ritenersi allora ammissibile, secondo la Suprema Corte, qualsiasi modalità che consenta di addivenire ad una valutazione equa.
Non appare a tal fine idonea, a parere della Cassazione, una soluzione di carattere meramente soggettivo, né la determinazione di un ammontare uguale per tutti, a prescindere cioè dalla relativa personalizzazione (in considerazione ad esempio dell’età delle condizioni di salute e delle speranze di vita futura, dell’attività svolta, delle condizioni personali e familiari della vittima).
Dal riconoscimento della ristorabilità della perdita del bene vita in sé e per sé considerato, anche in caso di immediatezza o istantaneità della morte, deriva, quale corollario, osserva la Corte, la necessità di procedere alla relativa quantificazione senza dare in ogni caso ingresso a duplicazioni risarcitorie.

Avvocato Sabrina Cestari

Pubblicato sui seguenti siti:

laprevidenza.it

www.milanofinanza.it

www.italiaoggi.it

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