Indennizzo per doppia patologia: spetta non solo per i danni direttamente derivanti dal trattamento sanitario, ma anche per quelli indiretti, purché ad esso causalmente collegati, in modo da costituirne un effetto non del tutto imprevedibile e inverosimile

L’articolo 2, comma 7, della legge n. 210 del 1992, come sostituito dall’art. 7, comma 1, del Decreto Legge n. 548 del 1996, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 641 del 1996 stabilisce che Ai soggetti danneggiati che contraggono più di una malattia ad ognuna delle quali sia conseguito un esito invalidante distinto è riconosciuto, in aggiunta ai benefici previsti dal presente articolo, un indennizzo aggiuntivo, stabilito dal Ministro della sanità con proprio decreto, in misura non superiore al 50 per cento di quello previsto ai commi 1 e 2.

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Importi indennizzo ex lege 210/1992 per l’anno 2025

 

Gli importi dovuti per l’anno 2025, ottenuti applicando un tasso di rivalutazione pari allo 1,8%, sono i seguenti:

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Risarcimento: gli interessi compensativi sono dovuti anche senza esplicita domanda e decorrono dal giorno in cui il danno si manifesta

Con ordinanza n. 32985/2022, pubblicata il 9 novembre 2022, la Corte di Cassazione ha formulato due importanti principi concernenti gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito.
Come evidenzia la Suprema Corte, il predetto risarcimento è un debito di valore, sicché in caso di relativo ritardato pagamento gli interessi non costituiscono un autonomo diritto del creditore ma svolgono una funzione compensativa tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato qual era all’epoca del prodursi del danno.
In altre parole, questi interessi, per tale motivo denominati compensativi, sono rivolti a ristorare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono, quindi, una necessaria componente.
Ne consegue, innanzi tutto, che nella domanda di risarcimento del danno da fatto illecito è inclusa la richiesta di riconoscimento sia degli interessi compensativi sia del danno da svalutazione monetaria.
Sulla somma riconosciuta al danneggiato a titolo di risarcimento occorre quindi che si consideri, in sede di liquidazione (oltre alla svalutazione, che ha la funzione di ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato antecedente alla consumazione dell’illecito: c.d. danno emergente), anche il nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa della mancata tempestiva disponibilità della somma di denaro dovuta a titolo di risarcimento (somma che, se tempestivamente corrisposta, avrebbe potuto essere investita per lucrarne un vantaggio finanziario).
Il giudice di merito deve pertanto attribuire entrambe queste voci al danneggiato, anche se la parte non le abbia espressamente richieste, senza che questo determini un vizio di ultrapetizione.
Nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito è infatti implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento degli interessi compensativi, quale componente indispensabile del risarcimento medesimo.
Ulteriormente, la Cassazione evidenzia che l’attribuzione degli interessi compensativi e del danno da svalutazione monetaria costituisce una mera modalità o tecnica liquidatoria, a tal fine il giudice è libero di utilizzare la tecnica che ritiene più appropriata per reintegrare il patrimonio del creditore.
Qualora il magistrato opti per la tecnica degli interessi, questi non vanno calcolati né sulla somma originaria, né sulla rivalutazione al momento della liquidazione, ma debbono computarsi o sulla somma originaria via via rivalutata anno per anno o sulla somma originaria rivalutata in base ad un indice medio, con decorrenza … dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso (v. Cass., 20/11/2018, n. 29830; Cass., 10/4/2018, n. 8766; Cass., 3/3/2009, n. 5054).
Poiché il danno da sangue infetto è un danno lungolatente, si manifesta infatti normalmente molto tempo dopo il trattamento sanitario che ha determinato il contagio, il giorno in cui si è verificato l’evento dannoso non è quello del predetto contagio ma quello in cui si manifestano per la prima volta i sintomi dovuti alla patologia post-trasfusionale (così, da ultimo, Cass. n. 28399/2024).

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Risarcimento: contagio da sangue infetto fornito da un centro trasfusionale estraneo all’ospedale ove avviene il ricovero, la Cassazione ribadisce gli oneri probatori che la struttura sanitaria deve assolvere per andare esente da responsabilità

Con ordinanza n. 30373/2024, pubblicata il 25 novembre 2024, la Corte di Cassazione ha ribadito quali siano gli oneri probatori che la struttura sanitaria deve assolvere in caso di contagio da sangue infetto avvenuto presso le proprie mura, con sangue fornito da un centro trasfusionale esterno, e quindi non dipendente, dalla struttura medesima.
In linea generale, i giudici di legittimità evidenziano che la struttura ospedaliera risponde dei danni subiti dal paziente anche nel caso in cui la sacca di sangue venga fornita dal centro trasfusionale esterno e, per andare esente da responsabilità, è necessario che la stessa struttura, ove non abbia provveduto con autonomo centro trasfusionale, ma abbia utilizzato sacche di sangue acquisite tramite il servizio pubblico trasfusionale competente, fornisca la prova della propria condotta diligente, ossia di aver assolto all’obbligo di accertare e verificare che l’organismo presso il quale si è approvvigionato delle sacche di sangue avesse effettivamente compiuto i controlli vigenti all’epoca del trattamento sanitario.
Il primo e fondamentale obbligo che deve adempiere il nosocomio è quello di essere consapevole di quale sia il centro che ha fornito il sangue poi utilizzato per la trasfusione, obbligo violato nel caso di specie, la struttura coinvolta, infatti, neppure era resa edotta della provenienza della predetta sacca, circostanza emersa dal fatto che aveva chiamato originariamente in giudizio, in manleva, una ASL che non aveva alcun rapporto giuridico con il centro predetto.
La struttura deve inoltre, e soprattutto, innanzitutto accertarsi che il centro che fornisce il sangue abbia effettuato tutti i controlli vigenti e che essi abbiano dato esito negativo, ulteriormente che il donatore sia tracciabile, ovvero identificabile.
Obblighi, nel caso di specie, completamente disattesi, invero la Corte di Appello aveva accertato che la Casa di Cura non ha dimostrato che il sangue trasfuso alla danneggiata fosse stato controllato e sottoposto ai relativi test obbligatori per legge, essendosi quest’ultima struttura limitata ad allegare di aver ricevuto la sacca di sangue dal centro trasfusionale … “senza mai indicare che tipo di test ordinari – tra quelli resi obbligatori già con L. n. 107 del 1990, per la ricerca dell’HCV, noti quantomeno dal 1989 – fossero stati compiuti, che tipo di “tracciamento” emergeva del sangue impiegato, ai fini dell’identificazione del donatore, evidentemente risultato positivo all’HCV.
Per questi motivi la Suprema Corte ha confermato la pronuncia impugnata, che aveva condannato la struttura a risarcire alla persona contagiata i danni subiti in conseguenza della contrazione del virus.
Avv.ti Sabrina Cestari e Alberto Cappellaro

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Risarcimento: valore probatorio dei provvedimenti emessi nel procedimento amministrativo ex lege 210/1992 nelle cause promosse contro la struttura ove è avvenuto il contagio

Come avevamo anticipato in un precedente articolo pubblicato sui nostri siti, con sentenza n. 19129/2023 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno escluso che possa attribuirsi valore di prova legale al verbale emesso dalle Commissioni Militari Ospedaliere (C.M.O.) nel procedimento amministrativo ex lege 210/1992, qualora tale verbale riconosca l’esistenza del nesso causale tra la trasfusione e il contagio.
Il giudice di merito non è pertanto vincolato dall’esito dell’accertamento effettuato dalla C.M.O..
Le Sezioni Unite hanno però anche evidenziato che tutto questo non implica che nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della Salute per il risarcimento del danno derivato dall’emotrasfusione l’accertamento effettuato in sede amministrativa del nesso causale fra quest’ultima e l’insorgenza della patologia non possa essere utilizzato ai fini della prova del nesso medesimo, che deve essere offerta dalla parte che agisce in giudizio.
Secondo la Corte, infatti, il diritto all’indennizzo ex lege n. 210 del 1992 e quello al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., che l’ordinamento riconosce come concorrenti, presuppongono entrambi un medesimo fatto lesivo, ossia l’insorgenza della patologia, derivato dalla medesima attività (cfr. in motivazione Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 584), e l’azione di danno si differenzia da quella finalizzata al riconoscimento della prestazione assistenziale essenzialmente perché richiede anche che l’attività trasfusionale o la produzione di emoderivati siano state compiute senza l’adozione di tutte le cautele ed i controlli esigibili a tutela della salute pubblica. Si è in presenza, quindi, di diritti e di azioni che presentano elementi costitutivi comuni.
Premesso questo, le Sezioni Unite hanno riconosciuto un valore di prova presuntiva al provvedimento che, sulla base dell’istruttoria svolta e del parere tecnico acquisito, disponga la liquidazione dell’indennizzo in favore del richiedente, sul presupposto dell’avvenuto accertamento in sede amministrativa dei requisiti tutti che integrano gli elementi costitutivi del diritto alla prestazione assistenziale, elementi tra i quali rientra … il nesso causale che lega emotrasfusione e patologia indennizzata. Pertanto, l’atto con il quale l’amministrazione si riconosce debitrice della provvidenza assistenziale presuppone la valutazione positiva della derivazione eziologica, valutazione che se da un lato, in quanto tale, non può integrare una confessione, dall’altro costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale.
Ne consegue che qualora il danneggiato produca in giudizio il provvedimento di liquidazione dell’indennizzo e/o dell’assegno una tantum o reversibile ex art. 2, comma 3 della legge 210/1992 il Ministero della Salute, nel costituirsi in giudizio, non potrà limitarsi alla generica contestazione del nesso causale ed all’altrettanto generica invocazione della regola di riparto dell’onere probatorio fissata dall’art. 2697 c.c., poiché la presunzione “forte” che dal riconoscimento amministrativo discende, seppure semplice e non legale, richiede, per essere superata, che vengano allegati specifici elementi fattuali non potuti apprezzare in sede di liquidazione dell’indennizzo o sopravvenute acquisizioni della scienza medica, idonei a privare la prova presuntiva offerta dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che la caratterizzano.
Tutto questo, peraltro, non realizza alcuna inversione dell’onere della prova, che resta a carico del danneggiato, perché la regola di giudizio qui enunciata attiene alla idoneità dell’elemento presuntivo a consentire inferenze che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, idoneità che va ritenuta, salva l’allegazione di contrari elementi specifici e concreti che rendano il primo inattendibile, sì da impedire che sullo stesso possa essere fondato il giudizio di inferenza probabilistica.
Le azioni di risarcimento danni, peraltro, possono essere promosse non solo nei confronti dell’Amministrazione ma anche della struttura ove è avvenuto il contagio.
Occorre quindi chiedersi se il principio sopra evidenziato sia applicabile anche nei giudizi azionati verso questi diversi soggetti, quesito a cui ha risposto positivamente la terza sezione civile della Cassazione, con sentenza n. 16780/2024, pubblicata il 17 giugno 2024.
In tale ultima pronuncia la Suprema Corte ha osservato che l’efficacia di prova presuntiva del provvedimento di riconoscimento dell’indennizzo ex lege 210/1992 può essere fatta valere non solo nei confronti del Ministero della Salute, ma anche di altri soggetti eventualmente responsabili sul piano risarcitorio per il contagio per cui è causa, rispetto ai quali il predetto provvedimento costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale.

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