Risarcimento: gli interessi compensativi sono dovuti anche senza esplicita domanda e decorrono dal giorno in cui il danno si manifesta

Con ordinanza n. 32985/2022, pubblicata il 9 novembre 2022, la Corte di Cassazione ha formulato due importanti principi concernenti gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito.
Come evidenzia la Suprema Corte, il predetto risarcimento è un debito di valore, sicché in caso di relativo ritardato pagamento gli interessi non costituiscono un autonomo diritto del creditore ma svolgono una funzione compensativa tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato qual era all’epoca del prodursi del danno.
In altre parole, questi interessi, per tale motivo denominati compensativi, sono rivolti a ristorare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono, quindi, una necessaria componente.
Ne consegue, innanzi tutto, che nella domanda di risarcimento del danno da fatto illecito è inclusa la richiesta di riconoscimento sia degli interessi compensativi sia del danno da svalutazione monetaria.
Sulla somma riconosciuta al danneggiato a titolo di risarcimento occorre quindi che si consideri, in sede di liquidazione (oltre alla svalutazione, che ha la funzione di ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato antecedente alla consumazione dell’illecito: c.d. danno emergente), anche il nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa della mancata tempestiva disponibilità della somma di denaro dovuta a titolo di risarcimento (somma che, se tempestivamente corrisposta, avrebbe potuto essere investita per lucrarne un vantaggio finanziario).
Il giudice di merito deve pertanto attribuire entrambe queste voci al danneggiato, anche se la parte non le abbia espressamente richieste, senza che questo determini un vizio di ultrapetizione.
Nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito è infatti implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento degli interessi compensativi, quale componente indispensabile del risarcimento medesimo.
Ulteriormente, la Cassazione evidenzia che l’attribuzione degli interessi compensativi e del danno da svalutazione monetaria costituisce una mera modalità o tecnica liquidatoria, a tal fine il giudice è libero di utilizzare la tecnica che ritiene più appropriata per reintegrare il patrimonio del creditore.
Qualora il magistrato opti per la tecnica degli interessi, questi non vanno calcolati né sulla somma originaria, né sulla rivalutazione al momento della liquidazione, ma debbono computarsi o sulla somma originaria via via rivalutata anno per anno o sulla somma originaria rivalutata in base ad un indice medio, con decorrenza … dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso (v. Cass., 20/11/2018, n. 29830; Cass., 10/4/2018, n. 8766; Cass., 3/3/2009, n. 5054).
Poiché il danno da sangue infetto è un danno lungolatente, si manifesta infatti normalmente molto tempo dopo il trattamento sanitario che ha determinato il contagio, il giorno in cui si è verificato l’evento dannoso non è quello del predetto contagio ma quello in cui si manifestano per la prima volta i sintomi dovuti alla patologia post-trasfusionale (così, da ultimo, Cass. n. 28399/2024).

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Risarcimento: contagio da sangue infetto fornito da un centro trasfusionale estraneo all’ospedale ove avviene il ricovero, la Cassazione ribadisce gli oneri probatori che la struttura sanitaria deve assolvere per andare esente da responsabilità

Con ordinanza n. 30373/2024, pubblicata il 25 novembre 2024, la Corte di Cassazione ha ribadito quali siano gli oneri probatori che la struttura sanitaria deve assolvere in caso di contagio da sangue infetto avvenuto presso le proprie mura, con sangue fornito da un centro trasfusionale esterno, e quindi non dipendente, dalla struttura medesima.
In linea generale, i giudici di legittimità evidenziano che la struttura ospedaliera risponde dei danni subiti dal paziente anche nel caso in cui la sacca di sangue venga fornita dal centro trasfusionale esterno e, per andare esente da responsabilità, è necessario che la stessa struttura, ove non abbia provveduto con autonomo centro trasfusionale, ma abbia utilizzato sacche di sangue acquisite tramite il servizio pubblico trasfusionale competente, fornisca la prova della propria condotta diligente, ossia di aver assolto all’obbligo di accertare e verificare che l’organismo presso il quale si è approvvigionato delle sacche di sangue avesse effettivamente compiuto i controlli vigenti all’epoca del trattamento sanitario.
Il primo e fondamentale obbligo che deve adempiere il nosocomio è quello di essere consapevole di quale sia il centro che ha fornito il sangue poi utilizzato per la trasfusione, obbligo violato nel caso di specie, la struttura coinvolta, infatti, neppure era resa edotta della provenienza della predetta sacca, circostanza emersa dal fatto che aveva chiamato originariamente in giudizio, in manleva, una ASL che non aveva alcun rapporto giuridico con il centro predetto.
La struttura deve inoltre, e soprattutto, innanzitutto accertarsi che il centro che fornisce il sangue abbia effettuato tutti i controlli vigenti e che essi abbiano dato esito negativo, ulteriormente che il donatore sia tracciabile, ovvero identificabile.
Obblighi, nel caso di specie, completamente disattesi, invero la Corte di Appello aveva accertato che la Casa di Cura non ha dimostrato che il sangue trasfuso alla danneggiata fosse stato controllato e sottoposto ai relativi test obbligatori per legge, essendosi quest’ultima struttura limitata ad allegare di aver ricevuto la sacca di sangue dal centro trasfusionale … “senza mai indicare che tipo di test ordinari – tra quelli resi obbligatori già con L. n. 107 del 1990, per la ricerca dell’HCV, noti quantomeno dal 1989 – fossero stati compiuti, che tipo di “tracciamento” emergeva del sangue impiegato, ai fini dell’identificazione del donatore, evidentemente risultato positivo all’HCV.
Per questi motivi la Suprema Corte ha confermato la pronuncia impugnata, che aveva condannato la struttura a risarcire alla persona contagiata i danni subiti in conseguenza della contrazione del virus.
Avv.ti Sabrina Cestari e Alberto Cappellaro

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Risarcimento: valore probatorio dei provvedimenti emessi nel procedimento amministrativo ex lege 210/1992 nelle cause promosse contro la struttura ove è avvenuto il contagio

Come avevamo anticipato in un precedente articolo pubblicato sui nostri siti, con sentenza n. 19129/2023 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno escluso che possa attribuirsi valore di prova legale al verbale emesso dalle Commissioni Militari Ospedaliere (C.M.O.) nel procedimento amministrativo ex lege 210/1992, qualora tale verbale riconosca l’esistenza del nesso causale tra la trasfusione e il contagio.
Il giudice di merito non è pertanto vincolato dall’esito dell’accertamento effettuato dalla C.M.O..
Le Sezioni Unite hanno però anche evidenziato che tutto questo non implica che nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della Salute per il risarcimento del danno derivato dall’emotrasfusione l’accertamento effettuato in sede amministrativa del nesso causale fra quest’ultima e l’insorgenza della patologia non possa essere utilizzato ai fini della prova del nesso medesimo, che deve essere offerta dalla parte che agisce in giudizio.
Secondo la Corte, infatti, il diritto all’indennizzo ex lege n. 210 del 1992 e quello al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., che l’ordinamento riconosce come concorrenti, presuppongono entrambi un medesimo fatto lesivo, ossia l’insorgenza della patologia, derivato dalla medesima attività (cfr. in motivazione Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 584), e l’azione di danno si differenzia da quella finalizzata al riconoscimento della prestazione assistenziale essenzialmente perché richiede anche che l’attività trasfusionale o la produzione di emoderivati siano state compiute senza l’adozione di tutte le cautele ed i controlli esigibili a tutela della salute pubblica. Si è in presenza, quindi, di diritti e di azioni che presentano elementi costitutivi comuni.
Premesso questo, le Sezioni Unite hanno riconosciuto un valore di prova presuntiva al provvedimento che, sulla base dell’istruttoria svolta e del parere tecnico acquisito, disponga la liquidazione dell’indennizzo in favore del richiedente, sul presupposto dell’avvenuto accertamento in sede amministrativa dei requisiti tutti che integrano gli elementi costitutivi del diritto alla prestazione assistenziale, elementi tra i quali rientra … il nesso causale che lega emotrasfusione e patologia indennizzata. Pertanto, l’atto con il quale l’amministrazione si riconosce debitrice della provvidenza assistenziale presuppone la valutazione positiva della derivazione eziologica, valutazione che se da un lato, in quanto tale, non può integrare una confessione, dall’altro costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale.
Ne consegue che qualora il danneggiato produca in giudizio il provvedimento di liquidazione dell’indennizzo e/o dell’assegno una tantum o reversibile ex art. 2, comma 3 della legge 210/1992 il Ministero della Salute, nel costituirsi in giudizio, non potrà limitarsi alla generica contestazione del nesso causale ed all’altrettanto generica invocazione della regola di riparto dell’onere probatorio fissata dall’art. 2697 c.c., poiché la presunzione “forte” che dal riconoscimento amministrativo discende, seppure semplice e non legale, richiede, per essere superata, che vengano allegati specifici elementi fattuali non potuti apprezzare in sede di liquidazione dell’indennizzo o sopravvenute acquisizioni della scienza medica, idonei a privare la prova presuntiva offerta dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che la caratterizzano.
Tutto questo, peraltro, non realizza alcuna inversione dell’onere della prova, che resta a carico del danneggiato, perché la regola di giudizio qui enunciata attiene alla idoneità dell’elemento presuntivo a consentire inferenze che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, idoneità che va ritenuta, salva l’allegazione di contrari elementi specifici e concreti che rendano il primo inattendibile, sì da impedire che sullo stesso possa essere fondato il giudizio di inferenza probabilistica.
Le azioni di risarcimento danni, peraltro, possono essere promosse non solo nei confronti dell’Amministrazione ma anche della struttura ove è avvenuto il contagio.
Occorre quindi chiedersi se il principio sopra evidenziato sia applicabile anche nei giudizi azionati verso questi diversi soggetti, quesito a cui ha risposto positivamente la terza sezione civile della Cassazione, con sentenza n. 16780/2024, pubblicata il 17 giugno 2024.
In tale ultima pronuncia la Suprema Corte ha osservato che l’efficacia di prova presuntiva del provvedimento di riconoscimento dell’indennizzo ex lege 210/1992 può essere fatta valere non solo nei confronti del Ministero della Salute, ma anche di altri soggetti eventualmente responsabili sul piano risarcitorio per il contagio per cui è causa, rispetto ai quali il predetto provvedimento costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale.

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Risarcimento: il termine di prescrizione dei diritti iure proprio decorre, di regola, dalla domanda di indennizzo presentata dal familiare

Con ordinanza n. 11228, pubblicata il 27 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha affrontato, tra l’altro, la tematica della decorrenza del diritto al risarcimento dei danni subiti, in proprio, dal familiare di un soggetto deceduto a causa delle complicazioni di una patologia contratta a seguito di trasfusioni di sangue subite in struttura pubblica.
La Suprema Corte ha innanzi tutto richiamato il principio applicabile al diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto patologie conseguenti ad emotrasfusione con sangue infetto per fatto doloso o colposo di un terzo, diritto che inizia a decorrere dal giorno in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto delle informazioni in possesso del danneggiato e della diffusione delle conoscenze scientifiche.
La Corte ribadisce che tale giorno va, di norma, identificato con quello di presentazione della domanda amministrativa di erogazione dell’indennizzo previsto dalla legge n. 210 del 1992, salvo che la controparte dimostri che già prima di quella data il danneggiato conosceva o poteva conoscere, con l’ordinaria diligenza, alla stregua dei parametri succitati, l’esistenza della malattia e la sua riconducibilità causale alla trasfusione, anche per mezzo di presunzioni semplici.
Con la pronuncia qui commentata la Cassazione estende la portata di questo principio anche al danno, c.d. parentale, ovvero a quello subito dai familiari del soggetto contagiato, deceduto a causa, o per concausa, dell’aggravarsi della patologia post-trasfusionale.
Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento da ultimo citato decorre, pertanto, dal giorno in cui il decesso venga percepito – o possa essere percepito, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto delle informazioni in possesso del danneggiato e della diffusione delle conoscenze scientifiche – quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, dovendo farsi riferimento, non al momento della verificazione materiale dell’evento di danno, bensì al momento della conoscibilità del danno inteso nella sua dimensione giuridica. Anche il termine di prescrizione del diritto al risarcimento di tali danni va dunque fissato, di regola, alla data di presentazione della domanda amministrativa di indennizzo, non potendo esso coincidere con la data del decesso della vittima o con quella (eventualmente successiva a quest’ultima, ma antecedente a quella della domanda amministrativa) della conoscenza, da parte dei congiunti, della patologia da cui era affetta la vittima medesima, se non sono stati forniti dalla controparte elementi certi tali da far ritenere che essi fossero in possesso di informazioni idonee a consentire il collegamento causale della patologia esiziale alla trasfusione.
Ne consegue che il giorno di decorrenza della prescrizione andrà, di norma, identificato con quello di presentazione della domanda di assegno una tantum o di reversibilità, ai sensi dell’art. 2, comma 3 della legge n. 210/1992.
Questo a meno che la controparte non dimostri, anche mediante presunzioni semplici, che il familiare era consapevole della rapportabilità causale del decesso del proprio parente alla trasfusione precedentemente subita prima di aver domandato i benefici attribuitigli dalla legge n. 210/1992.
La Corte evidenzia, ulteriormente, come tale principio costituisca un orientamento ormai consolidato – non scalfito dal precedente di cui a Cass. n. 19568/2023 (che, nell’ipotesi di dedotta responsabilità del Ministero della Salute per i danni invocati iure proprio dai congiunti della vittima deceduta a causa del contagio da trasfusione di sangue infetto, ha individuato il momento della decorrenza del termine di prescrizione del diritto risarcitorio alla data della morte della vittima medesima: in proposito, cfr. le osservazioni già compiute, al riguardo, da Cass. n. 34570/2023 …).
Nel caso deciso dalla Suprema Corte il paziente era deceduto a seguito di una patologia tumorale, il linfoma non Hodgkin di tipo B, di cui era stato però accertato il collegamento causale con l’epatite contratta dal paziente medesimo a seguito delle trasfusioni.
Ebbene, la Corte di Appello aveva dichiarato prescritto i diritti fatti valere dai familiari iure proprio senza aver accertato che al momento della pretesa decorrenza dei diritti citati i parenti del paziente, già a quell’epoca, avessero apprezzato (o potuto apprezzare con l’ordinaria diligenza ed in base alle informazioni possedute e alla diffusione delle conoscenze scientifiche) la riconducibilità causale della patologia tumorale (e non solo dell’epatite) alle trasfusioni con sangue infetto.
I giudici di secondo grado si erano infatti limitati ad evidenziare che i familiari già a quella data erano in grado di percepire la rapportabilità causale della (sola) epatite alle trasfusioni compiute da Gi.An. nel 1978.
Per questo motivo la sentenza è stata cassata e rinviata al giudice di merito per un nuovo esame.

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Risarcimento: l’indennizzo ex lege 210/1992 non può essere scomputato dal danno biologico temporaneo

Con ordinanza n. 4415/2024, pubblicata il 19 febbraio 2024, la Corte di Cassazione ha stabilito che l’indennizzo disciplinato dalla legge 210/1992 (in seguito, l’Indennizzo) può essere scomputato solo dal danno biologico permanente, ma non da quello temporaneo.
La Corte di Appello aveva applicato lo scomputo all’intero danno, statuizione impugnata dal ricorrente in quanto i due pregiudizi hanno natura diversa.
La Suprema Corte ha accolto il motivo, evidenziando innanzi tutto come il danno per invalidità temporanea e quello per invalidità permanente, pur avendo la stessa natura giuridica, hanno presupposti di fatto diversi. … Più precisamente, l’invalidità temporanea perdura in relazione alla durata della patologia e viene a cessare o con la guarigione, con il pieno recupero delle capacità anatomo-funzionali dell’organismo, o, al contrario, con la morte, ovvero ancora con l’adattamento dell’organismo alle mutate e degradate condizioni di salute (cd. stabilizzazione); in tale ultimo caso, il danno biologico subito dalla vittima dev’essere liquidato alla stregua di invalidità permanente.
La Corte osserva inoltre come l’Indennizzo sia riconosciuto a chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica. Esso è pertanto correlato all’invalidità permanente. Il danno che è stato riconosciuto dalla sentenza del Tribunale è invece quello relativo all’invalidità temporanea. I presupposti di fatto delle due attribuzioni patrimoniali, pur accomunate dalla medesima condotta lesiva e dal medesimo evento di danno, sono diversi, posto che l’una risarcisce l’inabilità temporanea, l’altra indennizza la menomazione permanente.
Considerato che l’Indennizzo viene scomputato dal risarcimento al fine di evitare un ingiustificato arricchimento del danneggiato, la Cassazione conclude che l’eterogeneità del presupposto di fatto impedisce di configurare l’ingiustificato arricchimento che presiede all’istituto della compensatio lucri cum damno, enunciando il seguente principio di diritto: “nel giudizio promosso per il risarcimento dei danni conseguenti al contagio a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, l’indennizzo previsto dall’art. 2, comma 3, della l. n. 210 del 1992, non deve essere scomputato, in applicazione del principio della “compensatio lucri cum damno”, dalle somme liquidabili a titolo risarcitorio per l’invalidità temporanea”.
Ringraziamo la Collega Paola Soragni, del Foro di Reggio Emilia, per la segnalazione e ci complimentiamo con lei per l’ottimo risultato ottenuto.

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