Con ordinanza n. 27874/2019, depositata il 30 ottobre 2019, la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in merito alla decadenza dal diritto all’indennizzo disciplinato dalla legge n. 210/1992.
Nel caso di specie la Corte di Appello aveva concluso per l’avvenuta decadenza della danneggiata dal diritto a domandare l’indennizzo da parte della danneggiata, decadenza che, per altro, i giudici di secondo grado avevano desunto da elementi diversi da quelli che emergevano dalla documentazione in atti, ovvero da dichiarazioni rese dal marito della ricorrente, da affermazioni contenute nell’atto introduttivo e, infine, dalla circostanza che la domanda amministrativa fosse stata presentata prima dell’ottenimento da parte della richiedente della cartella clinica, dalla quale era emersa l’avvenuta sottoposizione della medesima al trattamento trasfusionale.
La Cassazione con l’ordinanza de qua ha ritenuto le suddette argomentazioni in contrasto con la disciplina legislativa vigente. La Suprema Corte ha evidenziato, infatti, come il primo comma dell’art. 3 della L. n. 210 del 1992 stabilisce espressamente che i termini di decadenza da esso previsti “decorrono dal momento in cui, sulla base della documentazione di cui ai commi 2 e 3, l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno”. I commi 2 e 3 appena citati dispongono, inoltre, che “alla domanda è allegata la documentazione comprovante: la data della vaccinazione, i dati relativi al vaccino, le manifestazioni cliniche conseguenti alla vaccinazione e l’entità delle lesioni o dell’infermità da cui è derivata la menomazione permanente del soggetto” (comma 2), e che “per le infezioni da Hiv la domanda deve essere corredata da una documentazione comprovante la data di effettuazione della trasfusione o della somministrazione di emoderivati con l’indicazione dei dati relativi all’evento trasfusionale o all’emoderivato, nonché la data dell’avvenuta infezione da HIV”.
La Corte ha poi ribadito cosa debba intendersi per “conoscenza del danno”.
Innanzi tutto occorre tenere “distinta la conoscenza della patologia dalla conoscenza del nesso di causa”, la decadenza può decorrere, infatti, solo dalla “conoscenza della correlazione tra l’epatite e l’intervento terapeutico praticato, da intendersi quale elemento costitutivo del diritto al beneficio indennitario … Ed invero ‘il danno’ alla cui conoscenza la legge ricollega il termine non è la malattia in sé e per sé; ma è l’evento indennizzato dalla legge completo quindi del fattore causale”.
La Cassazione ha osservato ancora come “la predetta conoscenza deve inoltre comprendere la natura irreversibile del danno. Ne consegue che la cronicizzazione della epatopatia post-trasfusionale non configura e costituisce di per sé il requisito esclusivo per accedere ai benefici della legge di sostegno, ma con la malattia post-trasfusionale deve coesistere la documentata consapevolezza, per l’assistito, dell’esistenza di un danno irreversibile”.
La Corte ha evidenziato, ulteriormente, che “ai fini della decorrenza del termine, è decisiva la conoscenza che lo stesso danno irreversibile possa essere inquadrato – pur alla stregua di un mero canone di equivalenza e non già secondo un criterio di rigida corrispondenza tabellare – in una delle infermità classificate in una delle otto categorie di cui alla tabella B annessa al testo unico approvato con D.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, come sostituita dalla tabella 11 allegata al D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834”.
La Cassazione ha affermato, altresì, che “alla conoscenza effettiva è però parificata la ragionevole conoscibilità del danno. La conoscenza si realizza infatti quando il soggetto è in grado, secondo un parametro di ordinaria diligenza, di individuare la causa della patologia cui è affetto e rapportare quindi la propria malattia ad uno degli eventi dannosi previsti dalla L. n. 210”.
I giudici di legittimità hanno statuito, infine, come la predetta conoscenza “deve … avere base documentale”, questo perché “la legge individua … come fonte della conoscenza il supporto documentale specificandone la tipologia. Deve trattarsi di documentazione clinica che comprovi la data della trasfusione, le manifestazioni cliniche, l’entità delle lesioni o dell’infermità da cui è derivata la menomazione permanente del soggetto”.
Invero, “la giurisprudenza di questa Corte non ha mai affermato, … ai fini della decadenza per il beneficio dell’indennizzo previsto dalla L. n. 210 del 1992 (fissata dalla legge dal momento in cui, sulla base della documentazione di cui ai commi 2 e 3 l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno), che la domanda amministrativa possa rilevare per confermare in via induttiva una conoscenza del danno ricostruita aliunde in mancanza di documenti”.
Nel caso di specie, peraltro, la documentazione non solo esisteva, ma comprovava come “la conoscenza dell’emotrasfusione sia stata successiva rispetto alla stessa data della domanda amministrativa”. A tal proposito la Corte ha rilevato come la stessa C.M.O., in un momento posteriore alla presentazione della domanda di indennizzo, “restituiva ‘inevaso’ il fascicolo all’ASL, in quanto non vi era la prova documentale ‘dell’effettiva somministrazione dell’unità trasfusionali’, ripromettendosi di riesaminare la pratica quando fosse stata completata l’istruttoria documentale”, ne consegue che la predetta documentazione era “stata consegnata alla stessa ricorrente solo dopo la presentazione della medesima domanda; talché non interessa sapere perché la ricorrente presentò comunque la domanda amministrativa in data precedente”.
La pronuncia di secondo grado è stata, pertanto, cassata con rinvio ad un nuovo collegio, che si pronuncerà attenendosi ai principi sopra esposti.
Ringraziamo per la segnalazione i Colleghi Stefano Bertone e Chiara Ghibaudo del foro di Torino.
Avv.ti Sabrina Cestari e Alberto Cappellaro