Danno da perdita del rapporto parentale: oneri di allegazione e probatori a carico del danneggiato

Con ordinanza n. 12681/2021, depositata il 12 maggio 2021, resa in una fattispecie concernente un contagio da sangue infetto, la terza sezione civile della Corte di Cassazione ha evidenziato quali siano gli oneri a carico della parte che chiede di essere risarcita, a titolo di danno parentale, a seguito del decesso di un congiunto.

Il Collegio ha innanzi tutto ribadito come, “nell’ipotesi di pregiudizio non patrimoniale, il ricorso alla prova presuntiva … può costituire anche l’unica fonte di convincimento del giudice”.

Secondo l’articolo 2727 del codice civile “le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”, il successivo articolo 2729 precisa, in merito alle presunzioni “lasciate alla prudenza del giudice”, che il magistrato può ammettere solo quelle che siano “gravi, precise e concordanti”.

La Corte evidenzia quindi come la parte attrice abbia l’onere di allegare “tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata dei fatti noti”, in modo che poi il giudice possa, da questi, risalire al fatto ignoto.

Qualora la parte che agisce in giudizio lamenti, come nel caso di specie, un danno alla persona, sarà suo onere descrivere compiutamente “tutte le sofferenze di cui si pretende la riparazione”, onere “funzionale all’esplicazione del diritto di difesa, onde consentire di circoscrivere il contenuto dello speculare onere di contestazione e, di conseguenza, di delimitare, nell’ambito dei fatti allegati, quelli da provare”.

La Cassazione osserva però che “a fronte di un siffatto onere di allegazione, quello probatorio non è parimenti ampio. Esiste, difatti, nel territorio della prova dei fatti allegati, un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, in forza del quale al giudice è consentito di riconoscere come esistente un certo pregiudizio in tutti i casi in cui si verifichi una determinata lesione”, con frequente ricorso, a tal fine, alla categoria del fatto notorio, anche se il Collegio reputa più corretto fare riferimento alle massime di esperienza, i fatti notori infatti, essendo “circostanze storiche concrete ed inoppugnabili, non sono soggetti a prova e sono sottratti all’onere di allegazione”.

La massima di esperienza ammette invece “l’eventuale prova contraria”, essa, “difatti, non opera sul terreno dell’accadimento storico, ma su quello della valutazione dei fatti, è regola di giudizio basata su leggi naturali, statistiche, di scienza o di esperienza, comunemente accettate in un determinato contesto storico-ambientale”.

La Corte evidenzia, altresì, come “la massima di esperienza può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell’organo giudicante”, invero “non sussistono ostacoli sistematici al ricorso al ragionamento probatorio fondato sulla massima di esperienza specie nella materia del danno non patrimoniale, e segnatamente in tema di danno morale”, la predetta massima “consente di evitare che la parte si veda costretta, nell’impossibilità di provare il pregiudizio dell’essere, ovvero della condizione di afflizione fisica e psicologica in cui si è venuta a trovare in seguito alla lesione subita, ad articolare estenuanti capitoli di prova relativi al significativo mutamento di stati d’animo interiori da cui possa inferirsi la dimostrazione del pregiudizio patito”.

In altre parole, il giudice può fondare il proprio convincimento su “un ragionamento presuntivo fondato sulla massima di esperienza per la quale ad un certo tipo di lesione corrispondono, secondo l’id quod plerumque accidit, determinate menomazioni dinamico-relazionali, per così dire, ordinarie”.

Venendo alla specifica fattispecie del danno da perdita del rapporto parentale, ribadito che lo stesso costituisce “un danno-conseguenza”, la Cassazione osserva come tale pregiudizio “è risarcibile se sia provata l’effettività e la consistenza” del predetto rapporto, prova che può raggiungersi a mezzo di “presunzioni in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta”, facendo applicazione della “massima di esperienza per la quale, ad un certo tipo di lesione corrispondono, secondo l’id quod plerumque accidit, determinate menomazioni dinamico-relazionali, per così dire, ordinarie”.

Tutto questo non esclude, naturalmente, che nello specifico caso concreto le conseguenze della lesione vadano oltre l’ordinario, legittimando un risarcimento superiore ai parametri “medi”, sarà però la parte interessata a dover dimostrare, in questo caso in maniera specifica, le ragioni giustificative della non ordinarietà delle conseguenze dell’illecito.

Sabrina Cestari e Alberto Cappellaro

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